Francesca Sanzo si occupa di comunicazione web dal 2002, è blogger dal 2005 e attualmente lavora come responsabile contenuti digital per agenzie, aziende e progetti sociali. Dal 2012 tiene anche docenze per alfabetizzazione ai Social Media e contrasto del digital divide intergenerazionale. Nel tempo libero, scrive favole e racconti. Lavora da casa.
La abbiamo intervistata.
Francesca, in un solo giorno, il 18 maggio 2012, hai creato un nuovo hashtag che ha avuto subito una grande diffusione, sei stata invitata al Freelance Barcamp e ad alla trasmissione di una tv locale, citata su Panorama e sul Fatto Quotidiano: qual è l’idea che ha ricevuto questa attenzione?
Da un po’ di tempo volevo condividere la mia esperienza di homeworker, le strategie con cui organizzo e gestisco il mio lavoro e le mie giornate: quel giorno – un po’ per scherzo, un po’ per “tastare” il terreno – ho creato l’hahstag #ufficioincasa su Twitter e il riscontro è stato grandissimo e corale, tanto da farlo diventare trend topic. Chi lavora da casa ha voglia di confrontarsi e mettersi in rete con altri professionisti e telelavoratori come lui.
Con i nuovi media, si ha spesso la percezione di un successo istantaneo: ma quanto passato e quanto futuro ci sono a fianco di un’idea virale?
Dipende dall’idea: a volte è solo un topic estemporaneo, che riceve attenzione per qualche giorno e poi sparisce, altre può diventare lo spunto (come in questo caso) per costruire qualcosa. Io ho deciso, a seguito di quel successo, di creare una community per chi ha l’ufficio in casa, uno spazio di confronto e relazione, anche per sensibilizzare le aziende, che molto spesso sottovalutano il valore che potrebbero avere questo tipo di collaborazioni. L’idea diventa virale quando riflette bisogni o intercetta tendenze in atto, i Social Media sono una palestra “sociologica” molto interessante, sta poi a chi coltiva quell’idea decidere come declinarla perché non si perda nel flusso.
Storytelling: ci dai qualche coordinata, sulla base della tua esperienza?
Oggi la narrazione è alla base di qualsiasi esperienza, sia di consumo che critica: quel che riceviamo in termini di racconto è un valore che ci aiuta a definire confini, contesti e spesso ci indirizza nelle nostre scelte, a molti livelli. Ormai le cose non hanno significato se non parlano. Personalmente credo molto nel valore della narrazione, sia come laboratorio personale di crescita in un contesto allargato (la rete) dove chiunque può co-creare con noi dei contenuti, sia come modo per raccontare l’identità di un brand, prodotto o progetto. Saper narrare oggi è molto più importante che sapere promuovere, perché se la narrazione è efficace, si promuove da se.
Tu sei Blogger e Digital PR. Come sono i Blogger visti dalle aziende e le aziende viste dai blogger?
Ci sono aziende avvedute che vedono nei blogger dei professionisti potenzialmente in grado di aiutarli nel raccontare il loro valore, altre che li trattano come TARGET o polli da spennare, spesso mi arrivano mail per invitarmi a pubblicizzare o provare prodotti e poi parlarne sul mio blog da cui si capisce immediatamente che sono solo un nome in una banca dati targhettizzata e mi infastidisce parecchio.
Lavorando con le aziende, mi piace quando il rapporto è franco, diretto e posso mettere a frutto la mia esperienza in maniera positiva, ovvero evitando che il cliente faccia quello stesso errore nei confronti di altri blogger. Io – preciso – non utilizzo i miei blog personali come luoghi dove fare pubblicità o marketing per altri ma scrivo per blog aziendali, cercando di tenere separate l’anima più personale e quella professionale.
Due sono le strade più diffuse di utilizzo professionale/commerciale di un blog: quella della pubblicità (attraverso banner o post sponsorizzati) e quella del personal branding (pubblicizzando, indirettamente, un progetto oppure l’autore come scrittore, giornalista etc.). Ci sono altre pratiche in uso, professionali e non?
Come dicevo sopra, io attraverso i miei blog ho certamente contribuito a fare il mio personal branding: sto in un certo modo in rete e di solito chi mi cerca per collaborazioni professionali apprezza proprio quel mio modo, ma non utilizzo i miei progetti personali per fare pubblicità, se non in cambio di niente alle cose in cui credo veramente (e alle persone che di solito non me lo chiedono).
Esiste una strada ulteriore che è quella di creare un blog altamente professionale e specializzato e decidere poi di creare partnership o affiliazioni editoriali: quando è dichiarato che si tratta di questo genere di progetti, non ci vedo nulla di male. Alcuni blog sono talmente ben fatti che spesso è più piacevole leggerli di quanto non sia una rivista patinata. Quando l’impegno è professionale, mi sembra giusto, sensato e accettabile trovare aree pubblicitarie o sponsor che sostengono il progetto.
Blogger: tra sostenibilità del progetto e libertà dell’autore. Qual è la tua idea?
Prima di prendere qualunque strada bisogna assolutamente decidere qual è la propria etica, darsi una sorta di manifesto (non necessariamente pubblico) d’azione e essere abbastanza coerenti. Ufficioincasa.it (la community a cui sto dando vita) sarà un progetto professionale e cercherà degli sponsor, ma sarà esplicito fin da subito e voglio mantenere una mia libertà, scollegando totalmente i contenuti editoriali da quelli più promozionali.
Si può fare, ognuno a suo modo, ognuno con la sua coscienza. Credo che alla lunga se un progetto è buono, avrà visibilità e riscontro di pubblico, cartina di tornasole della sua qualità.
In un tuo post proponi “Adotta una blogger”: quali alternative di collaborazione tra aziende e blogger si potrebbero ancora esplorare o inventare? Con quali limiti?
La mia iniziativa “Adotta un blogger” è nata perché volevo andare al Salone del Libro e non avevo i soldi per farlo. Ho deciso così di scambiare le mie abilità di Content Curator e di digital p.r. Purtroppo l’idea mi è venuta tardi e così non sono riuscita a trovare nessuno che mi abbia mandata a Torino. Era un gioco più che una cosa seria e in questi termini l’ho vissuta: il baratto può funzionare ma solo se la valutazione economica è davvero realistica rispetto a ciò che si baratta e non svilisce il lavoro di nessuno.
Nel 2011, con la tua Associazione Donne pensanti, hai vinto il Premio 2011 Buone Prassi nell’ambito del DEW: c’è qualcosa che potrebbero fare i Media contro gli stereotipi di genere?
E’ una domandona. Non sono i Media che devono fare qualcosa, siamo noi che non dobbiamo più accettare gli stereotipi, che dobbiamo sviluppare anticorpi critici. I media e la pubblicità amano gli stereotipi perché trasformano le persone in target a cui rivolgersi, se noi continuiamo ad assecondarli è ovvio che le ragioni di business li spingeranno ad abbassare sempre di più il taglio, a non differenziare.
Credo che le donne e gli uomini dovrebbero guardare con sguardo nuovo alle cose: grazie alla Rete abbiamo la possibilità di passare parola, approfondire, indagare, confrontarci con gli altri. La parte del manico del coltello è nostra, prendiamoci le nostre responsabilità, boicottiamo i marchi che sviliscono categorie di persone attraverso gli stereotipi e smettiamo di guardare certe trasmissioni. I dati di mercato (che sono l’unica cosa che interessa a chi fa commercio) saranno implacabili e forse allora si cambierà strada.
Non restiamo in silenzio ma facciamo emergere e denunciamo pubblicamente ciò che non ci piace, incidendo concretamente al guadagno di questi soggetti. Fino a quando penseremo che la responsabilità è dei Media, non cambierà nulla e rimarremo fermi.