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Non è un paese per giovani

Il libro di Antonio Caprarica, direttore di radio uno, “gli italiani la sanno lunga…o no?” offre uno spaccato documentato e non banale del nostro paese, ricco di dati e ben scritto il libro spazia dalla cultura alla politica, dall’arte al lavoro sostenendo una tesi non troppo diversa da quella che noi stessi italiani portiamo avanti e che potremmo riassumere in “Italians do it different“.

Nel libro mi ha colpito in particolare il 12esimo capitolo, “questo non è un paese per giovani”, in cui l’acuto giornalista racconta del picco dei consumi tra i giovani su tv al plasma e videogames (“tanto una casa non potremo mai comprarcela”) e la storia degli impiegati di call center (nel 25% dei casi laureati) da quattro anni a 500 euro al mese. Il primo dato interessante è la durata della gioventù, se gli stranieri dopo i 20 anni diventano uomini, da noi un 35enne rivendica il suo status di “ragazzo”, e si sprecano gli epiteti sociologici sull’etichetta da affibbiare (Millenials, digital natives) e sui comportamenti di questa nuova razza..

Il placement, in Italia, è molto più efficace se si dispone di una raccomandazione, molto meglio che andare in un’agenzia specializzata (solo il 5% dei giovani trovano lavoro tramite questo canale), e alla luce delle condizioni dei laureati non c’è da stupirsi se alla fuga dei cervelli nostrana (brain drain) la Danimarca risponde con la cattura dei medesimi (brain catching). Non si sa se a causa di un’economia che cresce più del 3%, personalmente credo che si tratti di più di un effetto di questa politica lungimirante e sensata.

Ho sempre creduto che il nostro compito sia quello di disegnare un futuro di comunicazione e design, abilità che non ci mancano e dove possiamo reinventare ed applicare le nostre specificità di popolo evitando di soffrire la concorrenza di costo straniera, sembra di questo avviso anche Stefano Micelli su firstdraft, stupisce però questo pezzo di Capranica:

Peccato però che nel paese della moda e della Ferrari non si trovino né sarti né meccanici. E’ l’incredibile risultato di una ricerca condotta da Confartigianato che da le seguenti cifre: nel 2007 le imprese artigiane – vale a dire il retroterra indispensabile del made in italy – avevano bisogno di 162.550 nuovi addetti, ma si sono ritrovate con oltre 61.000 posti vuoti. Il 43% del necessario. Non si reclutano più artigiani tra le giovani generazioni. Mancano il 60% di parrucchieri ed estetisti, ed è sbalorditivo con la nostra maniacale cura del corpo, per tacere del ricco tariffario. Ma non si trovano soprattutto quei maghi del dettaglio che maggiormente hanno contribuito all’immagine dell’Italia nel mondo, trasformando il nostro brand in una garanzia di stile. Ferragamo? Gucci? Banchetti di calzolaio o pelletterie diventati marchi dell’opulenza? Scordateveli. (…) Non ci sono il 64% dei valigiai necessari, il 59% di sarti e modellisti, il 70% degli addetti alle confezioni (…) mancano anche il 73% dei falegnami e il 63% dei meccanici

questi dati fanno pensare, e soprattutto fanno pensare ad un punto molto delicato della nostra storia, meglio precari che artigiani? Meglio aggrapparsi ad un passato di arti e mestieri a rischio estinzione o votarsi ad un futuro di comunicazione e terziario avanzato ancora da modellizzare e stabilizzare? Credo che la risposta vada ricercata anche nell’indole delle persone e nella natura di ognuno di noi, a mio avviso il futuro dei lavoratori del terziario è legato ad abilità anche extra lavorative (self marketing, potere contrattuale, cultura personale), è quel capitalismo personale che non garantisce un’organizzazione gerarchica “sicura” ma vive in un modello reticolare che non tutti i giovani comprendono e forse ancora in fase di fit, non si spiegano altrimenti stage e precariato, cosi come non si spiega l’appiattimento verso il basso dell’università divenuta esamificio, sembra quasi che le due parti stiano tirando la corda della meritocrazia e del futuro.. speriamo non si spezzi.

 
 
AUTORE

Giorgio Soffiato

Markettaro per passione, dal 1983. Mente creativa e progettuale dell'azienda, fa chilometri e supera ostacoli in nome della rivoluzione arancione chiamata Marketing Arena. Cavallo Pazzo.
 
 

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