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Quanto vale un’idea in Italia?

E’ inevitabile. Ma non riesco ad abituarmi. Sono infastidito. Infastidito dal rumore che solo oggi, ormai tardi, i giornali riescono a generare su un tema che noi spingiamo dal 2007 ed altri da ben più tempo. Non ce l’ho con l’articolo di Severgnini sul corriere che, persona intelligente, ci invita ad invidiare i vari Page, Brin (google), Zuckerberg (facebook) ma non certo ad imitarne il modello. Bella la frase:

La scena più sexy di The Social Network non è quella in cui le stagiste sculettano nella nuova sede di Facebook, ma un’altra. Il rettore di Harvard, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, strapazza due atletici studenti in visita: «Mettetevelo in testa: qui i ragazzi non vengono per trovare lavoro. Vengono per inventarsene uno».

E bello anche l’articolo di panorama-economy della scorsa settimana che definisce “ragazzo terribile” Naveen Selvadurai, fondatore di foursquare. Tutto molto bello, tutto molto cool. Dice Severgnini che la ricetta sta nell’intuizione, nell’incoscienza e nella fantasia dei giovani. Benissimo, le abbiamo. Non ci mancano, ve lo garantiscono. Aggiunge un humus, le P-Cities (da Padova a Pisa, da Piacenza a Perugia) che nulla hanno da invidiare agli spazi americani in cui nascono queste idee. Ottimo, cosa manca allora?

A mio avviso non è un problema solo del governo, e nemmeno di soldi. Forse la faccio troppo facile ma ho la presunzione di pensare che esistano anche in Italia luoghi in cui “mettere su baracca” è possibile: incubatori, primi timidi esperimenti di venture capitalism, etc.. ci sono 3 problemi, pesanti:

  • età: quello che negli Stati Uniti fai a 22 anni da noi provi a farlo a 27, se sei lungimirante e lievemente folle
  • denaro: buona idea, ecco 20.000 euro per provarci (Italia). Credo di non sbagliare se dico (vedere “The google story” per conferma) che il primo assegno “per iniziare a provarci” ricevuto da google sia stato di 1.000.000 di dollari
  • cultura: non nascondiamoci, il problema è soprattutto culturale. In Italia fallire è un’onta e nessuno è incentivato a provare, dal posto sicuro in banca al lavoro anche cool nella tecnologia ne passa, ma finché porti a casa uno stipendio non hai pensieri. Sono pochi quelli che decidono di provare, e non solo per colpa dei bassi incentivi. E’ un problema di famiglie che non aiutano a rischiare, e non parlo di denaro. E’ un problema di università che non preparano a farlo. E’ un problema di giovani pigri, o impigriti

Non è corretto, non è giusto nascondersi dietro un dito. Perché gli studenti non si sentono pronti? Perché frequentano un master? Perché ancora troppo pochi di noi non pensano ad un’esperienza all’estero? Perché la Cina ci sembra talmente lontana da non valere un investimento culturale? A mio avviso l’Italia non è pronta, e non sta facendo nulla per prepararsi, la ricetta sta nel rendere operativo quello che oggi è teorico, incubare dall’anno 2 dell’università microimprese all’interno degli atenei stessi, e “far muovere le chiappe” ai docenti, che devono divenire i primi consulenti in aula, dopo la teoria, la pratica dov’è? Non bastano le case history e i consulenti portati in classe a parlare, è bello ma non basta. Bisogna mettere i ragazzi a lavorare. E giustamente i docenti replicheranno che i ragazzi pensano a prendere il treno per andare a bere una birra con gli amici, non a fermarsi fino a sera a lavorare sulla piattaforma del prossimo futuro, ed è verissimo.

Dov’è il problema? Di certo non nelle teste, quelle non mancano. E forse nemmeno nell’energia, la mia percezione è che esistano diversi ragazzi al lavoro, che lavorano tanto, che lavorano duro. Ma sviluppiamo micro cosmi, piccoli passi, e nel frattempo tra feste, ubriacature e notti insonni “i figli del silicone ci mangiano la pappa in testa”, non è incoraggiante

 
 
AUTORE

Giorgio Soffiato

Markettaro per passione, dal 1983. Mente creativa e progettuale dell'azienda, fa chilometri e supera ostacoli in nome della rivoluzione arancione chiamata Marketing Arena. Cavallo Pazzo.
 
 

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