Quella delle start-up non è una bolla. Anche in Italia i progetti si moltiplicano e, tra palco e realtà (qui un durissimo dotcoma sulla novità del giorno), mondi come H-Farm, Officine Formative, Chefuturo, Working Capital e l’emergente (ma tumultuosa) NuvoLab dell’amico Francesco parlano (a vario titolo, e con vario peso) da soli (disclaimer: stiamo lavorando con almeno tre di queste).
La pensata del giorno è però da segnalare nell’articolo di Stefano Micelli (da qualche mese “Mr. Futuro Artigiano”, un libro che spacca) su Firstdraft dal titolo “la lezione di Instagram e quella di IKEA”. Il post mette in guardia dall’americanizzazione delle start-up italiane, che sembrano invece ignorare le opportunità del territorio (ovviamente da rileggere in chiave digitale), Stefano Micelli si sbilancia proponendo, tra gli altri:
- un co-branding con l’imprenditoria cinese
- un e-commerce con il coinvolgimento dei produttori della riviera del brenta
- un progetto ad ampio respiro con i mobilieri veneti
Mi piace la definizione di start-up come “espressione più alta dell’entusiasmo sociale”, ma concordo solo in parte con la latitanza in Italia di questo tumulto positivo, l’entusiasmo che vedo nei ragazzi del MA.D.E.E. di Digital Accademia ne è un esempio. Sicuramente il miliardo di dollari passato di mano da Facebook a Instagram (numero talmente inimmaginabile da richiamare lo striscione “come si scrive cempion lig?” dei tifosi del Chievo Verona di qualche anno fa) apre il dibattito su:
- differenza tra “volumi di finanziamento” italiani, europei e statunitensi
- rischio “bolla digitale”
Quello che Micelli segnala è paradosso: l’assenza di creatività nella start-up. Il dictat “team, team, team, prodotto, mercato” come metrica di valutazione della qualità e scalabilità di una start up facilita il perseguimento e la clonazione di modelli esistenti (basati su team forti e idee interessanti che però propongono il più delle volte innovazioni incrementali e migliorative – Pinterest se ci pensiamo eredita i meccanismi di like e follow e li ripensa aggiungendo qualcosa in più), più che l’esplorazione di nuove vie in cui le componenti di prodotto e mercato fanno la differenza. La realtà è che gli artigiani veneti stanno assumendo personale, l’alto di gamma come il food “tirano ancora” ma manca un punto di contatto digitale, manca la consapevolezza che “inventarsi competenze digitali” (gli artigiani) e “inventarsi il prodotto” (gli startupper) rappresentano strategie autarchiche e rischiose, nel punto di incontro tra queste competenze c’è probabilmente molto valore, magari non 1 miliardo di dollari, ma di certo una buona quantità di certezze in più.
Può essere un caso che la startup citata da Riccardo Donadon nel suo intervento di qualche giorno fa ha citato proprio Garage (una startup che “scarica a terra” in pochi click il proprio valore) come esempio di investimento di capitali stranieri in start-up italiane? Il tumulto comunque esiste, ed i modelli di business “innovativi” (pensiamo alla vera e propria economia virtuale che sta creando Massimo di Corso12 con il suo team) non mancano, i “produttori” e “gli startupper” potranno mai sedere allo stesso tavolo?