Recentemente, Nilofer Merchant, brillante columnist dell’Harvard Business Review, ha tuonato la morte del marketing in nome della definizione di “shared purpose”, obiettivi condivisi che permettono di “mettere le basi per costruire una community di consumatori. Non bisogna più parlare alle persone, ma bisogna co-creare con le persone”.
Azzardando un po’, la Merchant ci costringe però a riflettere su quello che sembra essere il sostituto dell’“apriti sesamo” d’oggi: crowdfounding, crowdsourcing, crowdcreation, crowdvoting, crowdwisdom e intelligenza collettiva sono tutti quei modelli di business tanto in voga, quanto appiglio ultimo per provare a fare impresa.
Ma dal riconoscere un cambiamento di paradigma al parlare di morte del marketing di acqua sotto i ponti ne passa, così come riconosce – sempre sull’Harvard Business Review – anche Philip Granof.
Secondo lo stesso Granof, infatti, parlare di scopi condivisi non costringe a tirare una croce sopra la parola marketing, quanto piuttosto a cambiare il quadro di riferimento di chi è occupato in questo settore, aiutandolo a comprendere meglio il proprio ruolo nel processo co-creativo.
Così, se è vero che le parole hanno un potere trasformativo, ora è necessario ripensare il linguaggio “markettaro” – per modificare la percezione che abbiamo della struttura relazionale – ancora completamente strutturato sulla metafora guerresca e inadatto ai nuovi approcci collaborativi.
Parlare di diritti indifendibili, attaccare ogni punto di un’argomentazione, demolire un’argomentazione, non riuscire mai a vincere in una discussione sono costruzioni per noi tanto familiari che non riconosciamo, a patto di fermarci a riflettere, quanto possano cambiare il nostro modo di rapportarci con l’altro e, in particolare, con clienti e possibili collaboratori.
Per questo motivo, in questo nuovo panorama, necessitiamo di una terminologia in grado di descrivere, e quindi modellare e ridefinire i nuovi ruoli occupati da ognuno.
Granof propone allora di rimpiazzare la guerra con la danza, poiché nella danza, come afferma la coreografa Martha Graham, c’è “una forza vitale, un’energia, un’accelerazione trasformata dalla persona in azione, e dato che c’è solo una sola persona come te nella storia, ogni espressione di danza è unica…la danza è l’espressione dell’umanità – il paesaggio dell’animo umano”.
La danza è vista, quindi, come elemento costitutivo della natura umana da cui emerge connessione, scoperta, trasformazione e rivelazione. La proposta per chi si occupa di marketing è essere più ballerini e meno soldati, di considerare il marketing non tanto come una strategia quanto una coreografia produttrice di una melodia tra le parti.
Allora, fare marketing oggi significa chiedersi come e con chi il mio brand è connesso socialmente, “filosoficamente” e funzionalmente; significa chiedersi come mai sia apprezzata la mia azienda e quale ruolo abbia il mio marchio nel risaltare le caratteristiche individuali di tutti coloro con cui si deve collaborare. Significa domandarsi quale sia la natura dello scambio tra chi entra a far parte di un processo di co-creazione e come se ne esce cambiati.
Farsi queste domande vuol dire costruire una dichiarazione d’intenti che definisce la complessità del carattere aziendale, senza farsi appiattire su una banale e “guerresca” dichiarazione di posizionamento.
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