Clubhouse. Un altro hype. Un altro bar che chiude, e un’altra voglia di fortuna (Ligabue). Tutti a mille. C’è già chi lo definisce il social network che rompe tutte le barriere della parità di genere e chi lo inserisce già nelle memorie del passato.
E noi sempre un po’ dubbiosi sul tema.
È persino stancante essere sempre quelli della controcultura, della sofferenza, del “la strada si fa in strada”. Forse Marketing Arena non è nemmeno più quella scanzonata cricca di giovani che schiaffeggiano il digitale, siamo un’agenzia vera ormai. Quindi dovremmo portare di corsa i nostri clienti su Clubhouse, no? Ni.
Nel marketing, come nella vita, ci sono dei fondamentali che passano il tempo, un po’ come i funzionari (che restano) ai danni dei politici (che passano). Due di questi fondamentali sono “porta traffico” e “fallo atterrare su un prodotto desiderato, al prezzo giusto”. Per noi è finito il web marketing. Clubhouse ha senza dubbio una funzione di buzz e rumore, vantaggi di brand building e posizionamento perché “sei tra quelli cool che arrivano prima”. Però lo stesso brand poi ha un canale YouTube (secondo motore di ricerca al mondo) che fa schifo, non investe su Facebook e non ha settato Google Analytics e Tag Manager. Clubhouse è il K2, ma il tuo brand non ha visto la vetta del parco della Majella.
Il web marketing fallisce solitamente in tre grandi momenti.
Il mancato dimensionamento del mercato: un noto politico definirebbe di “Shock” la reazione che ogni volta abbiamo quando facciamo la seguente domanda: “quanto è ampio il vostro mercato potenziale?”. Le aziende non lo sanno. Invece il dimensionamento del mercato, e delle quota occupata dall’azienda in quel mercato, è fondamentale. Di recente ho avuto l’opportunità di tenere un intervento alla Scuola Holden, dove ho raccontato il caso di un birrificio agricolo ed abbiamo ragionato assieme sul possibile piano di marketing. Una studentessa mi ha chiesto: “ok ma da dove si parte?”. Il nostro ragionamento è iniziato dal numero dei consumatori di birra in Italia, dalla produzione dell’azienda, dal fatturato potenziale, dalle 4P, insomma da Philip Kotler. Che credetemi, sopravviverà a Clubhouse.
La cura standard: altri due fondamentali: brand e lead. Spesso però non per incompetenza ma per delirio formativo del mercato, stiamo approcciando tutti i progetti allo stesso modo. Quindi “un etto di social” se siamo social media manager, o “un etto di SEO” se siamo SEO specialist. Peccato che il problema del cliente risieda magari nel processo di acquisto B2B (diverso dal B2C) o nella necessità di educare il mercato prima di vendergli qualcosa. Ancora una volta, l’impianto strategico è fondamentale, e con esso la possibilità di far leva su un brand vivo e vivido. Con buona pace del growth hacking.
L’assenza di risorse: ultimo punto, i denari e le persone. Il birrificio di cui sopra può aspirare a 4/500 mila euro di fatturato. Ne servono 70/80 di marketing, e sono pochi. La cultura del test, dell’MVP, ci sta portando a non esporci mai, a non scegliere mai. Di norma invece quando hai messo il 50% dei tuoi soldi in mano a Google e Facebook non hai sbagliato (il traffico di qualità di cui sopra) e il resto deve essere investito su un piattaforma tirata a lucido e su contenuti eccellenti. Prima di sbarcare su Clubhouse, confidateci un segreto: siete perfetti su questo punto?
Secondo noi, a gennaio 2021, è ancora tempo di ragionare su questi fondamentali e compiti per casa.