Digital PR: ne sentiamo spesso parlare ed in contesti completamente diversi tra loro, per fare un po’ di chiarezza abbiamo chiesto a Francesca Concina, professionista di relazioni pubbliche specializzata in comunicazione digitale, di spiegarci in cosa consiste il suo lavoro.
I nostri lettorino ti conosco già ma rinfrescare la memoria non farà male, ci racconteresti chi sei, cosa fai e quale tipo di formazione ti ha condotta alla tua professione?
Francesca, professionista di relazioni pubbliche specializzata in comunicazione digitale, lavoro come consulente affiancando aziende e collaborando con agenzie per integrare al piano di comunicazione tradizionale la parte digital, focalizzando l’attenzione sul rapporto con gli stakeholders. Ma soprattutto: amo la comunicazione, prima di tutto amo le relazioni pubbliche nella loro accezione più vera che non è assolutamente quella monotona di media relations, di ufficio stampa “scrivo un triste comunicato e lo diffondo ai giornalisti. Poi magari faccio un paio di telefonate supplicanti sperando che me lo pubblichino”. No. Ci sono relazioni da costruire, creare, stabilire, con tutti i pubblici (public) di un’organizzazione. Il ruolo delle PR oggi, più che mai, è strategico, importante, trasversale, e richiede un impegno non indifferente, una preparazione e formazione continua. Invito tutti a dare un’occhiata al Mandato di Melbourne (definito nell’ultimo World PR Forum) per chiarirsi le idee su cosa siano davvero le PR…a questo punto vi starete chiedendo…ma e il digital in tutto ciò? Dal mio punto di vista è un insieme meraviglioso di strumenti di comunicazione che in termini di PR han favorito l’implementazione di processi e dinamiche splendide, ampliando le opportunità sia per la comunicazione interna che esterna. Ecco di cosa mi occupo (o almeno ci provo). Digital non è solo marketing. La mia formazione? Un percorso particolare (almeno visto da occhi tradizionali italiani) e work in progress, sempre. Ma per questo rimando a Linkedin che è più che esaustivo; vi anticipo che c’entrano aerei, studio, agenzie, eventi, no profit e tanta passione.
Il settore delle relazioni pubbliche italiane, qual è lo stato dell’arte?
Non penso di avere la competenza per dare una risposta o giudizio autorevole in merito, quindi rispondo secondo la mia opinione – come si scrive su twitter “opinions are my own” 😉 .
Nel complesso, qualche anno (in certi casi decennio) arretrato rispetto al resto del mondo PR occidentale – ma non solo. Pochi giorni fa ne discutevo con una brava e smart PR: intorno al 2010 quando abbiamo iniziato ad utilizzare la parte cosiddetta digital (per semplificare) che significava apertura a nuovi canali, nuove forme di interazione etc… si parlava di un divario fra Italia e USA di due anni: quello che in USA avveniva nel 2008, in Italia si sviluppava nel 2010. Con il passare del tempo, quello che ho notato è stata una chiusura, una semplificazione e generalizzazione volta alla massa che ha aperto un divario di 3, 4 o più anni. Il settore si è come arroccato e chiuso in sé stesso, diventando sempre più autoreferenziale, chiudendosi totalmente ai giovani. Attenzione: un “giovane” PR qui in Italia è considerato tale anche fino ai 35 anni. Inaudito. Certo, se fino ai 30 rimane junior a scrivere comunicati senza far esperienza e avere responsabilità etc…chiaramente è un problema di sistema “gattopardesco” (ma questo è un discorso un po’ complesso e rischio di andare fuori tema). Formazione, apertura, contaminazione da parte di altri settori, confronto con i colleghi di altri paesi: queste sono le parole chiave che secondo me mancano, insieme a tanta voglia di rinnovamento. Per fortuna, non mancano a tutti! Io ho trovato in FERPI, e anche fuori, dei colleghi che con me han creduto in un progetto/evento di rinnovamento, InspirigPR appunto, volto a dare una scossa a questo mondo asettico che rischia di implodere in sé stesso. Vediamo cosa ci riserverà il futuro, perché di giovani (quelli veri, quelli under 30 ma anche under 25) capaci e volenterosi ne ho incontrati moltissimi e mi piange il cuore quando sento le proposte che hanno e il modo in cui sono costretti a lavorare – sempre si possa definire lavoro. Non lo nego. Consiglio a tutti di andare all’estero. E continuo a ringraziare chi, all’inizio del mio percorso in PR, mi ha detto “Francesca, per imparare va all’estero”. Con l’estero continuo a lavorarci, in futuro…vedremo.
In che modo il web ha inciso sulle PR?
Il web nel suo sviluppo è stato prima informazione e poi comunicazione e relazione. Le PR sono relazione e non possono prescindere da esso e dal suo sviluppo, dalla sua evoluzione. Come dice B. Solis le organizzazioni stanno vivendo il fenomeno del Digital Darwinism, ovvero tecnologia e società si sviluppano e evolvono più velocemente in termini di comportamenti e strumenti, rispetto all’adattamento delle organizzazioni stesse. Penso che le PR siano come quelle organizzazioni: se non trovano il modo di far entrare la Digital Transformation al loro interno, continueranno a vivere in una situazione di Darwinismo Digitale senza saper comprendere e sfruttare i cambiamenti relazionali della società in cui viviamo. Per chi crea, costruisce, preserva relazioni è qualcosa di assurdo, a dir poco.
Si è tanto parlato di quanto il web abbia influito sul rapporto tra brand e consumatore, rendendolo sempre più diretto, e di quanto dunque il peso della comunicazione interna sia cresciuto, tanto quanto quello della comunicazione esterna. Reputi che le aziende italiane siano consapevoli di questa evoluzione? Ci sono delle differenze, in termini di cultura aziendale, tra PMI e grandi aziende strutturate?
La comunicazione interna è sempre stata importante tanto quella esterna. Il fatto che oggi ci sia una comunicazione diretta con il brand da parte dei clienti ha evidenziato in modo preponderante agli occhi di tutti (e di tutte le funzioni aziendali) questo aspetto, ma le organizzazioni etiche, con una visione al lungo termine, hanno sempre guardato sia dentro che fuori di sé – e non fa differenza essere una PMI o una major. Comunichi chi sei, i tuoi valori, la tua essenza. Il famoso Mandato di Melbourne afferma che uno dei compiti delle PR è proprio costruire una cultura fondata sul coinvolgimento degli stakeholders, interni tanto quanto esterni. Più che di evoluzione, parlerei di presa di coscienza e di consapevolezza. Gran parte delle aziende italiane probabilmente sono ancora digiune in questo senso, ma non è solo colpa loro: quanti professionisti PR hanno posto nei giusti modi e termini la questione ai loro clienti? Quanti ne hanno parlato, pur sapendo di sentirsi rispondere dal management (soprattutto se parliamo di PMI, anche a conduzione familiare, tipologia di azienda di cui è permeato il tessuto economico italiano) “non ci interessa, ma questo cosa mi porta a livello di ROI e risultati?” Quanti fra noi hanno rischiato di affrontare questi temi, quanti hanno davvero voluto fare e determinare l’innovazione culturale – parlando di comunicazione – all’interno delle aziende per cui lavorano siano essi dipendenti o consulenti? Quanti fra noi per primi hanno deciso di formarsi, aggiornarsi, confrontarsi con colleghi che operano all’estero? Capire come rispondere alla famosa domanda sul ROI delle relazioni pubbliche – che tanto arriva sempre – è frutto di esperienza ma anche di studio e formazione continua. Non c’è una risposta uguale per tutti. Forse è più comodo lasciare perdere, scrivere un comunicato, fare un evento identico a quello dell’anno prima, e qualche recall?
È vero, le aziende italiane sono molto arretrate, ma l’assunzione di responsabilità, a mio avviso, deve essere duplice. Aziende, da una parte, e professionisti dall’altra.
Secondo te la comunicazione offline sta morendo? Si evolverà?
Muore nel momento in cui la si lascia morire, non la si integra secondo un piano efficace di comunicazione e una strategia innovativa. Ovviamente non si può generalizzare, ma molti strumenti se rivisitati e ripensati secondo logiche, tempi e momenti che si adattano alla società (e ovviamente al mio audience di interesse all’interno di quella società) sono ancora vincenti. D’istinto mi vengono in mente le pensiline di Ray ban, quelle decisamente potenti di Amnesty International (campagna 2006 ripresa nel 2013) o le affissioni video #lookup dei voli BA di Piccadilly Circus. Creatività, semplicità, momento, modo. Ma soprattutto, perché? La scelta del canale offline – se per evoluzione intendi il discorso tecnologico, certo, si sta evolvendo e lo farà in continuazione anche se una riscoperta “vintage” in un determinato momento potrebbe essere altrettanto vincente – deve far parte del touch point di un customer journey ben preciso nella mente di chi declina il piano di comunicazione. Solo così ha senso, altrimenti rimane la solita singola azione di comunicazione che non produce alcun risultato e ritorno.
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