Facebook. Un argomento divenuto quasi intoccabile quanto il “2.0” per i consulenti più cool.. quelli che cercano di ripulire dall’effetto moda ogni attività per sacrificare le aziende all’altare della strategia. La malcelata ironia è in realtà autoironia, quella di chi scrive e di molti altri che probabilmente preferirebbero avere la possibilità (che indubbiamente ha Mark Elliott Zuckerberg) di bere coca&havana sulla spiaggia anzichè provare a convincere le imprese che, la fuori, c’è un mondo tutto social da esplorare. Ne è uscito addirittura un libro, miliardari per caso, che racconta della fondazione di facebook come una storia di soldi, sesso e tradimenti..cool!
Chi, come noi, sta alla finestra, ha vissuto una sorta di terremoto e non basta il video “social media revolution”, che riporto, a spiegare la situazione:
La parte più complessa, quella che deve ancora venire, è legata all’evoluzione di questa baracca in cui abbiamo molte persone, persone vere, molti interessi condivisi e dati a disposizione, molte aziende bramose di “comunicare” (ok..scusate..ascoltare, relazionarsi, attivare conversazioni) ma manca ancora un vero motore del cambiamento, quasi la scossa di assestamento dovesse ancora venire.
Il paradosso è legato al business, facebook & co devono negare la propria identità se vogliono produrre denaro. Sembra abbastanza chiaro che la vera torta non sta nei gift o nei rapporti tra utenti, forse non sta nemmeno su modelli complessi come i micropagamenti travestiti da @nomecognome–> 5$ come qualcuno aveva ipotizzato (o fatto?) per Twitter. La torta è una, si chiama “budget media”. Sono ancora i concetti di share ed esposizione a far brillare gli occhi di tutti, un vocabolario condiviso da aziende, agenzie e media, perchè sforzarsi di cambiare in 3 quando l’unico a richiedere questo cambiamento è il quarto attore, cioè il “popolo bue“? Finite le provocazioni, forse fin troppe, provo a chiudere il cerchio.
Il social media marketing non è un’attività di beneficenza e questa leva di marketing (lo ripeto, leva di marketing) comprende un nuovo modo di pensare, che si integra con altri nuovi modi di pensare come l’invertising, ma è forse più giusto prendere atto di questa semplice verità che continuare ad immaginare il dialogo tra aziende ed utenti come un momento di condivisione di un obiettivo. Io parlerei piuttosto di fine dell’abuso di potere delle aziende sull’uomo, questo si e, via permission marketing, di uno scambio alla pari: attenzione in cambio di valore.
L’attenzione è un concetto molto caro all’advertising tradizionale, si tratta probabilmente di una ..brr.. “metrica più monetizzabile” e quello che forse deve far riflettere è la mutata possibilità di reazione consentita a chi quell’attenzione pone, in particolare non è più l’asettica esposizione alla televisione a farci comprare un prodotto (appunto: scrivere un post sul rapporto tra social media marketing e sell out) quanto la capacità di un’azienda di trattarci come meritiamo, meglio degli altri se ci distinguamo come parte attiva di una community, che non per forza significa essere brand evangelist o ambassator.
Ciò che colpisce è la necessità dei social network di staccarsi dal concetto di “repositori di persone” per abbracciare invece quello di media a 360° ripercorrendo un modello che già può essere considerato “stabile” dagli studiosi di economia della conoscenza che, azzardando un paragone, è simile al modello apple: mettere in mano una cosa a più persone possibile (ipod, facebook) guadagnando poi sulla fruizione e l’utilizzo. Oggi facebook permette alle aziende di creare gratuitamente pagine al proprio interno, pagine che si rivelano siti web a tutti gli effetti, è solo la strada “dell’aggresione del budget media” che può coronare un modello di business sensato. E questo è probabilmente il modo per tracciare una rotta, quella che potenzialmente ogni social network seguirà, a suo modo, per diventare grande e stabilizzare la propria offerta, anche commerciale.
Che ne dite?