Non voglio rientrare nella polemica di questi mesi tra chi sostiene che i social media siano la risposta a tutti i mali e chi, invece, afferma con decisione che sono uno strumento praticamente inutile.
Sì, perchè oltre al fatto che come sempre la verità sta nel mezzo, devo dire che ho un’opinione molto precisa a riguardo: i social sono uno tra i tanti strumenti di comunicazione/marketing/business di cui ci si può avvalere per sviluppare una strategia di comunicazione. Non sono dunque nè LO strumento, nè, un gioco.
Entrano a pieno diritto tra le leve del communicationx mix, indipendentemente dai dati “negativi” legati ai referral o al tempo di permanenza sui website. Chi li snobba mente sapendo di mentire.
Fortunatamente le bugie hanno le gambe corte e di racconti di esempi virtuosi d’uso dei social (e dunque case history di successo) ne è piena la rete.
Ma anche chi li elegge a salvatori della patria e dell’economia è poco credibile: se non integrati in piani di business/marketing/comunicazione perdono buona parte del loro potere, allo stesso modo di impostare una campagna pubblicitaria su stampa isolata, fine a se stessa, senza integrarla in una strategia più complessa impostata su obiettivi chiari, definiti e misurabili.
Detto questo e ristabilita la giusta collocazione di questi strumenti all’interno del panorama dei mezzi di comunicazione, mi preme affrontare un altro argomento: la questione budget.
Quanto un’azienda deve destinare a quest’attività e quante risorse umane e economiche deve investirci?
La risposta, come da copione, non può essere univoca e ricade sempre sul dipende.
Dipende dagli obiettivi, dipende dall’uso, dipende dalla strategia, dipende dal brand, dipende dal contesto e dipende dal mercato. Vero.
Ciò di cui sono certo è la tendenza alla sottobudgettizzazione, sia che siano gestiti in house dai brand, sia che siano affidati alle agenzie o a liberi professionisti.
Fatta eccezione per poche aziende o PMI che investono molto e lavorano bene su questi strumenti, i dati dimostrano che tutto il resto è noia.
Questo è naturalmente un peccato in quanto se è vero che il nostro contesto è ben interpretato e descritto dal modello economico e commerciale di Anderson, ovvero come una coda lunga, piccole e medie imprese in primis, che operano nei mercati di nicchia, avrebbero tutte le possibilità e lo spazio per costruirsi piccole grandi fortune, grazie alla rete (e alla democratizzazione all’accesso a ogni forma di comunicazione), e massimizzare i profitti.
Insomma, è come se ci fosse un grande mercato parzialmente inesplorato davanti a noi e nessuno volesse prenderselo.
La verità non sta nel volere: piuttosto la si trova nel non potere. Infatti quello che manca spesso sono le competenze che permettono di far variare la qualità degli investimenti. Manca la cultura in merito a questo genere di comunicazione. E dunque manca una vision sui margini di manovra. Il dramma è che manca sia da parte di chi dovrebbe investire, sia da parte di chi l’investimento lo dovrebbe prendere in mano e portarlo a maturazione e compimento.
Questo è un dramma. Sì, perchè come in tutti gli ambiti, se manca la conoscenza e manca la qualità, viene a mancare anche la capacità di valutazione, sia da parte dei brand che da parte di chi questo lavoro lo fa. Questo è un dramma, ripeto. Ma è la deriva naturale, inevitabile. In tutti gli ambiti e in tutti i mercati vale questa regola: o si investe sulla qualità, per generare valore, o la battaglia dei prezzi porta a un bagno di sangue al ribasso, dove ci sarà sempre chi fa la stessa cosa a meno.