Dal 21 al 23 Giugno, presso il Palacongressi di Rimini si è tenuto il Web Marketing Festival. Marketing Arena c’era: Alessandro Facco ha portato le esperienze con Facebook Adv per il mondo B2B, mentre Giorgio Soffiato ha presentato il nuovo content marketing framework.
Abbiamo conosciuto molte persone tra cui Alessandro Biggi con cui abbiamo chiacchierato di Zooppa e della sua nuova start up Avocaderia, il ristorante dell’avocado.
Alessandro vive a New York, ha una formazione che passa da Made, il Master in H-Farm, che gli apre le porte al mondo delle start-up.
Oggi è CEO di Zooppa, un’agenzia creativa.
Punto forte di Zooppa è la combinazione di tre elementi: il team, composto da project manager, developer e business developer; la tecnologia, con lo sviluppo di piattaforme per la gestione dei progetti creativi e il network operativo che conta in totale quasi 400 mila persone in giro per il mondo.
Come è cambiata Zooppa negli anni?
Zooppa nasce facendo contest creativi, con un “modello open”, in cui un brand ha la possibilità di lasciare un brief e di selezionare i contenuti migliori che riceve dai professionisti. Da un anno e mezzo abbiamo introdotto un nuovo modello che noi chiamiamo “privato” che permette di gestire in maniera confidenziale e offline lo sviluppo di progetti creativi con il coinvolgimento di un numero chiuso di professionisti che già conosciamo e che sappiamo avere un livello qualitativo molto alto. I professionisti presentano diversi pitch, in modo da fornire spunti, idee e prospettive al cliente. Si passa, poi alla selezione dell’idea migliore e alla sua produzione.
Si dice che sia l’anno dei video. Voi vi ritrovate nello sviluppo di progetti seguendo le diverse fasi di un funnel di conversione?
Assolutamente, il contenuto è diverso ogni volta.
Quando vendo un progetto, cerco sempre di mettermi dalla parte del cliente. In agenzia, puntiamo sempre ad usare la stessa produzione per sviluppare diversi contenuti che vanno poi a formare vari touch points e questo vale sia in ambito di canali che formati necessari.
É quello che è successo per Inter, con Inter abbiamo fatto un video da 60 secondi e poi da quello abbiamo ricavato 5 pillole su 5 demografiche differenti con target specifici che l’azienda utilizzava per andare a raggiungere, in base alla CRM, i potenziali abbonati.
Spesso il cliente ti chiede il famoso video virale, che è una cosa sulla quale noi a Marketing Arena combattiamo molto. Ci sono degli elementi per poter fare in modo che un video possa acquisire le dinamiche che lo rende più facilmente condivisibile?
Io dico sempre, quando mi chiedono un video virale, che è come fare una start-up di successo.
Quindi è molto difficile.
Sicuramente ci sono alcune strategie che possono aumentare la possibilità che il video diventi virale, ma che si distaccano da ragioni di qualità del video stesso. Il video deve toccare dei sentimenti forti, emozioni che sono condivisibili. In un momento come questo, in cui l’Italia non è andata ai Mondiali, se fai un video che parla dell’orgoglio italiano o che racconti la storia della federazione calcistica, ha la possibilità di diventare virale perchè è un momento in cui tutti quanti lavorano su questo. Un’esperienza divertente che ho fatto quando ancora ero in 20lines è stata il giorno dopo le elezioni del 2013. Ho aperto una pagina che si chiamava “Bere per dimenticare il declino”, (richiamando il partito “fare per fermare il declino”) ed è diventata virale. Questo perchè la politica è un argomento di cui tutti parlano, l’hype c’era e l’argomento toccava le corde dello scontento politico.
Si può dire che il dato è il nuovo brand?
I dati sono relativi. Ci sono X modi per guardarli e non sono sempre oggettivi. Anche nel funnel di conversione, lo stesso dato all’inizio cambia significato durante il percorso. I dati sono importantissimi, ma devono essere visti in un contesto. Va bene fare dei test e dei focus Group però mantenendo un minimo di creazyness e di creative approach.
Una PMI ha di fronte potenzialmente due strade, la prima è quella di decidere per la produzione, da parte di un video maker, di un video molto patinato, mentre l’alternativa è quella di rivolgersi a Zooppa che “goes crowd”.
Come cambia il vostro team creativo? C’è un impatto diverso?
Noi abbiamo sviluppato un nostro database interno, in cui abbiamo raccolto quante più informazioni possibili sui nostri creative team. Le informazioni che ci interessano sono: location, lavori precedenti, industrie di specializzazione e il loro equipment. Da qui creiamo team dinamici in base alle richieste del cliente in modo tale da trovare le persone più in linea con il progetto.
Possiamo garantire un vantaggio di costo, soprattutto quando ragioniamo in scala. Mentre nel video individuale ce la giochiamo allo stesso livello, se iniziamo già a parlare di due, tre, cinque video, a quel punto Zooppa diventa il “go to”, anche per l’efficienza di costo.
Il vantaggio di rivolgersi a noi è duale: di costo grazie alla struttura snella e di reach fuori da quella locale. Capita spesso che ci chiamano per la realizzazione di video dal Sudamerica o dall’Asia, noi non dobbiamo mandare una crew là, abbiamo già una crew localizzata.
Quanto lega la cultura aziendale?
Da pazzi, noi abbiamo una cultura di cui sono super orgoglioso che si basa sulla parola trustparency: un mix tra fiducia e trasparenza. Fiducia perchè è quella che regola tutti i rapporti umani, sia a livello di business che a livello di team (si rema nello stesso verso), e quello che faccio io è dare fiducia che tutti stiano lavorando per ottenere l’obiettivo. Fiducia ti da il rapporto con il cliente portando al repeat business.
Alla fiducia si arriva con trasparenza. Noi facciamo un meeting al giorno che si chiama “il cinque alle cinque”. Alle 17 ci connettiamo e ognuno ha un minuto/un minuto e mezzo per raccontare quello che ha fatto e portare tutti alla stessa pagina. Sta dando risultati fantastici in termini di comunicazione perchè ci permette di prevenire i problemi.
Poi c’è una start up di cui vorrei parlare che è AVOCADERIA
L’idea è partita quando ero a Seattle con Zooppa. Fai conto che io non so cucinare, quindi mangio fuori. E in America quando mangi fuori o spendi tanto e mangi bene o poco e mangi schifezze. Aggiungi che stavo vivendo un periodo particolarmente green e healthy; quindi stavo a casa a fare avocado toast e mi sono piaciuti tantissimo. Mi sono informato e ho capito che dietro c’è un interesse pazzesco. Ho capito che quello che affascina è che sia un frutto molto sano, ricco di proprietà nutritive e allo stesso tempo pieno di grassi saturi, quindi è un grasso buono che da sazietà. E per me questa è una cosa magica.
Da lì ho iniziato a pensare a questo concept con il mio migliore amico che all’epoca viveva in Messico e anche lui mangiava avocado tutti i giorni.
In una nottata abbiamo aperto uno Square Space e una pagina Instagram, creando un teaser con un avocado bar “coming into New York very soon”, cosa falsa anche perchè io ero a Seattle e lui in Messico.
Abbiamo contattato un po’ di food blogger per chiedere se volevano partecipare. Quindi, abbiamo iniziato a postare un po’ di foto di avocado toast o altre ricette con avocado e da lì il boom.
Abbiamo poi lanciato una petizione per chiedere di introdurre la emoji dell’avocado tra le emoticon di whatsapp che ha avuto molto interesse.
Una volta trovata la location a Brooklyn, un anno esatto dopo l’apertura della pagina Instagram abbiamo aperto il primo negozio e da poco il secondo.
Per l’apertura abbiamo dato l’esclusiva al New York Times. Siamo stati invitati a diversi programmi tra cui Shark Tank che in America è uno degli show più seguiti; l’esperienza negli studios della Sony è stata assurda. A livello di show è andata molto bene.
Ora ci stiamo sviluppando come brand, quindi stiamo creando una serie di attività che vanno al di fuori della vendita.
In Italia funzionerebbe?
A Roma ne hanno già aperto uno simile. Mentre a New York puoi aprirne 15-20, a Milano ne apri 2-3 e hai già coperto il mercato, il gioco non vale la candela, soprattutto in un business come la ristorazione dove i margini sono molto bassi.