Un’amica si è appena trasferita in Australia. Un’altra persona a me cara che se ne va, che fa un ultimo tentativo per trovare una condizione di vita un po’ più appagante. Senza certezze, ovviamente, ma in fin dei conti: “cosa ho da perdere? Alla peggio me ne ritorno a casa!”, mi dice.
Fino a qualche tempo fa non condividevo questo passo; ora lo capisco e, ammetto, di pensarci anch’io. La frustrazione è tanta e se la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40%, per quanto mi riguarda l’atteggiamento di chi dovrebbe essere una guida, un esempio e offrire supporto è causa dell’attuale diaspora quasi quanto lo è la crisi economica. Vorrei spiegarmi con un’esperienza personale.
Due anni or sono ho fatto uno stage di circa 6 mesi in una struttura pubblica: ufficio stampa e relazioni esterne. Maniche rimboccate e sorriso stampato in faccia, cercavo di dare del mio meglio per portare a termine i compiti che mi assegnavano; giorno dopo giorno, però, il fervore di fare, di proporre e propormi scomparve progressivamente, il sorriso svanì e alzarmi la mattina significava quasi “violentarmi”. Tutto ciò dopo pochi mesi, non certo dopo una vita. Il problema non erano le mie mansioni, ma parte delle persone che mi circondavano.
Per rinvigorire la passione in un ragazzo è sufficiente ascoltarlo, correggerlo, motivarlo: credere in lui. L’ambiente in cui lavoravo trasmetteva esattamente l’opposto.
La quotidianità consisteva nel sentir ripetere che è inutile proporre qualcosa di nuovo, perché “le cose si fanno così come si sono sempre fatte, non c’è motivo di cambiare”; consisteva nel capire che terminati i propri compiti si può aprire il giornale (davvero!) e guardare i colleghi affogare tra le scartoffie senza alzare un dito. Si impara presto a scandire la giornata con pause caffè a ogni ora, a non comunicare neppure tra vicini di scrivania, a non concludere un lavoro perché sono già le 17 e rimanere un quarto d’ora in più è impensabile: si farà domani quello che si doveva terminare oggi. Il vociare di sottofondo erano lamentele sull’ingiustizia che regnava nel mondo del lavoro, sull’insoddisfazione riguardo la propria posizione (e la propria vita in generale), ma anche recriminazioni sull’inadeguatezza e sull’incapacità dei propri colleghi, senza vedere, ovviamente, “la trave nel proprio occhio”. “Questo posto è stagnante! Me ne devo andare!”, così ripeteva continuamente uno dei miei compagni d’ufficio aggiungendo che “il lavoro oggi, voi giovani, ve lo dovete inventare!”.
Fermi tutti però. Queste righe non vogliono essere una delle solite tirate verso il settore pubblico e i suoi dipendenti in toto: tra loro ho consciuto persone veramente per bene, competenti, fin troppo stacanoviste e oneste. Il clima in cui ho vissuto è lo stesso – e ne sono certa – di tantissimi altri ambienti di lavoro, pubblici o privati che siano.
Ho raccontato l’episodio, perché vorrei sollevare, invece, una questione ben precisa: la necessità di cambiare prospettiva, di stravolgere una mentalità paralizzante che ci costringerà, gioco forza, a essere inadeguati anche sul mercato dell’offerta. E lo constatiamo oggi così come lo verificheremo domani se non ci sarà un’inversione di tendenza. Mi spiego.
Noi gggiovani non possiamo essere tutti Mark Zuckerberg e, soprattutto, viviamo in un contesto che molto difficilmente permette di realizzare qualcosa come ciò che l’inventore di Facebook è riuscito a mettere in piedi: sia pure per l’eccessiva burocrazia, sia per l’assenza di imprenditori visionari quanto basta per investire su un’idea. Aggiungiamoci la crisi economica e la frittata è fatta.
Così, mi permetto di dire che non è sempre necessario inventare qualcosa di nuovo. Al contrario, credo serva da parte di chi assume (o vorrebbe assumere) molto più coraggio per provare, finalmente, a fare cose “vecchie” in maniera alternativa, diversa, nuova nel senso di innovativa; forse migliore…chissà.
Basterebbe integrare competenze e menti fresche, con quelle esperte e rodate; basterebbe voler insegnare a chi si affaccia sul mondo del lavoro, ma anche essere disposti, talvolta, ad ascoltare qualche proposta differente: non desiderare semplicemente mano d’opera che esegua istruzioni. Basterebbe trasmettere passione e dedicare tempo. Lo so, il tempo non c’è e i soldi neppure, ma sono convinta che condizione essenziale affinché le cose inizino a sistemarsi davvero è, prima di tutto, credere, infondere fiducia anche se la realtà rema contro tutto. Solo così si potrà iniziare a fare qualche piccolo passo in avanti.
In attesa del lavoro, in attesa che le condizioni economiche cambino nettamente, quello che davvero manca a chi, come me, ha tra i 20 e i 30 anni (e anche qualcosa in più) è ritornare a Sperare e questo potete insegnarcelo solo voi che nel lavoro ci siete già.