Ieri sera ci siamo divertiti, a Pillole di Futuro abbiamo lavorato sodo, ma ce l’abbiamo fatta. Novanta e più persone hanno condiviso il venerdì sera in un’officina di Rovigo, richiamate da un tam tam social che ha portato in Veneto un bel pezzo del panorama maker (si, era il tema della serata) italiano.
Non parlerò dei singoli, non parlerò della serata e non parlerò dell’emozione di vedere la stampante 3D all’opera. Parlerò del del fenomeno. Propongo tre spunti.
Il mondo dei maker è decisamente indefinito, ed è in questa assenza di confini che vive il bello di qualcosa di ancora molto in divenire, ma anche una parte probabilmente “strutturale” di continuo mutamento dato da una voglia di sperimentare che, va detto, i nostri mondi non hanno più. Poco hanno in comune l’applausometro stampato in 3D arrivato ieri sera e le borse fatte a mano, tranne una cosa: il fatto a mano. Non so dire se il maker è un hacker, un artigiano o un designer, maker è chi utilizza tecniche di design, sviluppo e stampa non industriali (in almeno due delle tre parti, visto che lasermio, uno dei casi visti, di certo un po’ industriale lo è) per progettare, costruire o far funzionare qualcosa. Alcuni temi non sono usciti ieri, purtroppo, ed io che vivo di domande più che di risposte rilancio dopo una conversazione con uno dei presenti: cosa può voler dire questo fenomeno per realtà (diciamo metà del mondo) che non hanno modo di produrre e sostentarsi? Ma anche di avere supporto nella salute (le protesi, ad esempio). Grazie alla rete ed a questi prodotti si potrebbe vivere un’esistenza migliore?
I maker si divertono. La pomposità della parola terza rivoluzione industriale è giusta e comprensibile, più però a servizio di chi deve raccontare un fenomeno che ad uso del maker stesso. Per come l’ho compresa io ieri sera, la terza rivoluzione industriale è prima di tutto distributiva. Accadrà a bicchieri e lampade quello che è accaduto alla musica. Il progetto rimane pregno di valore, l’oggetto può divenire talmente commodity da essere autoprodotto alla scrivania, o magari alla condivisa stampante del condominio? C’era molto under 30 ieri sera, e quando si è parlato di Alitalia è venuto da ridere a tutti. Carrozzoni senza una via salvati da lobby che non ci appartengono in un’economia che tira le ultime i cui rigetti non ci riguardano più di tanto
Le piccole e medie imprese hanno una speranza, ma questa non è la salvezza. Il tema che mi interessava probabilmente di più è andato solo parzialmente evaso, ma ho capito molto. Ho capito di sbagliare focus quando credo che questa evoluzione passerà come una patina sui famosi 17.000 artigiani di Treviso, dando loro un’opportunità di cambiare (o pivotare come dicono gli startupper) il proprio modello di business, salvandosi rispetto a chi non capirà e si spegnerà a breve. È tutto molto più legato al tema della contaminazione di mestieri da non modificare ed artigiani che devono continuare a fare il proprio mestiere con canali nuovi (ecommerce), professionisti diversi (creativi che possono differenziare e valorizzare il loro prodotto) e mercati tutti da esplorare. I nuovi artigiani non sono artigiani 70enni che decidono di digitalizzarsi e sposano il mondo maker, sono aziende che offrono servizi a una filiera, anche di produzione. Ma sono soprattutto giovani che non sono così convinti che il terziario avanzato sia “the way”.
Fare, è respirare. Per un motivo molto semplice. Corriamo tutti troppo, con la sensazione di proporre 10 e chiudere 1, sviluppando un meccanismo entropico deleterio per la salute e le relazioni. Questi sono mondi lenti, che scaricano a terra tantissimo, soprattutto in ottica di relazioni e condivisione di esperienze. Il valore è li, il consumo non è più solitario e inanimato, ma è nella condivisione del consumo che si crea valore. Lungi da me rinnegare un consumismo capitalistico in cui tutti siamo frullati, la ferrari è bella e viaggiare nel lusso è divertente. Il punto è un’altro: qui siamo di fronte ad una nuova moneta di scambio più che a una nuova economia, in cui il livello di soddisfazione finale permette di dire “ho fatto qualcosa di bello”, ma soprattutto “tocco con mano l’essenza di quello che sto portando avanti”. Non potendo fare, perché non siamo capaci, abbiamo almeno provato a portare un punto di osservazione ad una città che di respirare ha probabilmente bisogno. Per tutti i digital guru questa è davvero libertà in pillole, come si legge su “la società dei makers”: Senza l’opportunità di lasciare un segno nel mondo, e in particolare nelle cose attorno a noi nella vita quotidiana, il nostro riposo sarebbe vacuo e privo di interesse e la nostra fatica soltanto sopportazione