Mai disattendere o deludere le aspettative dei clienti. Questa è la regola numero uno per chi opera nell’ambito della comunicazione e del marketing. Ma cosa accade se il processo viene invertito? È immaginabile avere un prodotto qualitativamente eccellente, con un inestimabile potenziale attrattivo e non fare nulla per raccontarlo?
Il paradosso italiano
“Italia capitale dell’arte e della cultura” ci si sente ripetere spesso. Certo, con i suoi 4500 musei diffusi capillarmente su tutto il territorio, una media di un museo e mezzo ogni 100 km, la penisola italiana è un solido pilastro per la cultura mondiale, soprattutto se i turisti stranieri sono in crescita e ci si classifica nelle prime posizioni come meta del turismo internazionale.
Ma facciamo un passo indietro. Oramai chiunque svolga funzioni manageriali in ambito culturale dovrebbe avere ben chiaro il panorama entro il quale si trova ad agire: musei 2.0 che intrattengono conversazioni con il proprio pubblico, lo coinvolgono, lo rendono partecipe delle varie fasi di progettazione di mostre ed eventi, ascoltando i desideri dei visitatori e stando attenti alle esigenze di ognuno senza farsi trovare impreparati di fronte a problemi di qualsiasi natura, dovrebbero essere per i nostri musei azioni facili tanto quanto per un italiano preparare un piatto di pasta.
Bene, in Italia non si lavora così. O meglio, la pasta la sappiamo fare bene, ma in quanto a competenze comunicative e relazionali con il pubblico ci troviamo sulla strada sbagliata.
I casi di successo
Qualcuno ci prova e ci riesce: il MAXXI a Roma o il MART di Rovereto sono esempi eccellenti di come il marketing relazionale sia fondamentale e, di come creare un legame con il proprio pubblico on-line, non sia un’impresa da titani, fosse anche per il solo fatto che l’Italia non la visitano solo gli italiani. Sebbene ormai tutte le istituzioni museali siano dotate di un sito web e di una pagina Facebook, restano troppe quelle che non parlano almeno una lingua straniera e non prevedono l’acquisto on-line del biglietto.
Il problema è proprio questo: non si sa a chi ci si rivolge, non si conoscono i propri visitatori e di conseguenza non si sa in che modo parlare con loro per attirarli all’interno delle strutture. Il web gioca un ruolo fondamentale in questo processo, essendo in grado di generare engagement tramite un dialogo attivo e continuo anche al di fuori della struttura. Le figure professionali specializzate in questi processi di comunicazione non mancano, ma molto spesso ci si affida alle meno competenti rischiando di generare un sentiment negativo e di diffidenza nei confronti delle nuove tecnologie. Si dice sempre che il web sia veloce e istantaneo, ma bisogna ricordare che i risultati di una pianificazione ben progettata si possono vedere solo nel lungo periodo, mentre nel breve periodo bisogna lavorare con costanza alla creazione e all’aggiornamento dei contenuti.
Quale soluzione per i musei italiani?
E se allora in Italia si contano 21 milioni di utenti al giorno attivi online (con una penetrazione del 40%), rivalutare la scala delle priorità è il primo passo: spostare per un attimo dalla cima della lista la conservazione e la tutela (campi nei quali l’Italia già eccelle) per lasciare spazio al raggiungimento di obiettivi quali la creazione di strategie digitali 2.0 complete; rendersi conto che nel web si parla a molti – a tutti – e questi ultimi pretendono di rispondere e poter esprimere la propria opinione, anche senza che essa venga richiesta direttamente.
Il visitatore, ormai, vuole sentirsi parte di un sistema entro il quale non solo è il benvenuto, ma anche protagonista attivo dei processi decisionali. Il fine è quello di accrescere il ruolo esperienziale e valoriale, perché colui che vive un’esperienza online e offline (e quindi non più solo una semplice visita) sarà un visitatore soddisfatto e interessato a partecipare al prossimo evento, e a farlo sapere alla comunità in cui vive e si relaziona.
Come osserva Richard Love di Hewlett-Packard, “il ritmo del cambiamento a cui assistiamo è così rapido che la capacità di trasformazione è diventata essa stessa un motivo di vantaggio competitivo”. E se l’Italia è in ritardo, forse è il caso di fare un bel respiro e mettersi in marcia per davvero.