Trattare il tema dei makers di questi tempi equivale a percorrere un campo minato. Saccenti divulgatori millantano conoscenze che vanno dall’economia alla prototipazione, dal design all’artigianato, mentre magari il giorno prima vendevano enciclopedie. Scusandomi in anticipo per l’incompetenza sul tema, propongo una lettura dell’ottimo articolo del Telegraph, Putting 3D printers to work – a revolution in replication, che ha il contemporaneo pregio e difetto di usare la parola rivoluzione. Il tema è caldo e il punto di vista presentato assolutamente interessante. Si parla di 3Dhubs, una startup che permette di trovare la stampante 3D più vicina a casa propria con un obiettivo futuribile ma gustoso: sfruttare la capacità produttiva inutilizzata di queste stampanti al servizio delle imprese e delle persone.
Il processo è molto semplice:
- Carica il tuo disegno on line
- Scegli un punto di stampa
- Ritira il prodotto
Non sappiamo se Julian Hakes metterà a disposizione le scarpe stampate in 3D preferite da Gwyneth Paltrow, di certo l’idea di siti produttivi a disposizione è tanto democratica quanto interessante per aziende che potranno essere premiati sempre più in qualità di presidi unici di progettazione, creatività e design e sempre meno per una superiorità distributiva (location, location, location) che non sempre rende giustizia alla qualità. Esistono già app che permettono di fotografare un oggetto e trasformarlo in un modello 3D senza necessità di conoscere linguaggi di programmazione, potrei quindi teoricamente fotografare un oggetto in Cina e recuperarlo stampato a Venezia al mio atterraggio, e l’idea di riportare a casa la produzione percorre una tratta simbolica e voluta. Gli stampatori guadagnano, le aziende o i privati ottengono un prodotto “a chilometro zero” separando la fase di produzione da quella di distribuzione, e saltando a pié pari l’industrializzazione. Niente male no?