Qualche giorno fa, in uno dei pochi in cui mi sono permesso una colazione casalinga ad un orario decente, ho notato, con immenso piacere come il palinsesto mattutino di Italia Uno prevedesse ancora qualcuno di quei telefilm (una parola dal gusto un po’ anni ‘90), che vedevo durante il mio periodo scolastico.
Il mio preferito, e che ancora catalizza la mattinata dei convalescenti italiani che non vanno a scuola o al lavoro, è Supercar (originalmente Knight Rider) che racconta le avventure di Michael Knight, cavaliere/giustiziere che imperversa nel countryside americano per salvare, come da copione, i buoni dai cattivi.
Il suo “cavallo”, una Pontiac Firebird Trans Am, era però quello che a quei tempi mi affascinava di più: KITT (acronimo di Knight Industries Two Thousand), la macchina pensante dotata di un’intelligenza artificiale avanguardistica, e valoroso sparring partner del cotonato David Hasselhoff.
Guardando ad oggi, le innovazioni immaginate dai produttori di Supercar nella metà degli anni ’80, erano premonitrici in molti aspetti. La guida autonoma, l’assistente virtuale e anche il tanto amato turbo boost (anche se in modalità diverse), stanno solo ora, 30 anni dopo, prendendo l’attenzione del pubblico in attesa della definitiva consacrazione che dovrebbe arrivare nei prossimi anni.
Software e hardware su Supercar si fondevano alla perfezione grazie al lavoro della FLAG (Foundation for Law and Government) supervisionata dal mitico Devon. Questa fusione tra realtà opposte ma complementari, è il grande trend dell’auto moderna ma anche obiettivo principale per il futuro di tutti i carmaker. Gli attori nel mercato stanno però cambiando radicalmente, o meglio, l’industria che ha da sempre fatto le auto (hardware) si ritrova a competere nel terreno che naturalmente non le compete, quello del software.
Un terreno, quello tecnologico, che predilige la velocità delle startup e chi possiede del know-how molto più sviluppato in merito (i vari Apple, Google, Baidu) ai carrozzoni automotive tutt’altro che agile. La sfida si ribalta in qualche modo: perché chi ha il software, può anche fare l’hardware ma difficilmente avviene il contrario. E sarà sempre di più così.
Secondo un articolo di Venture Beat , ci dobbiamo preparare ad un’invasione tecnologica in auto ancora più grande; già oggi device connessi ed elettronica impattano per il 35% sul costo finale di un auto contro il 20% di dieci anni fa. I “vecchi” costruttori allora che fanno? Comprano chi fa i software! Questo bisogno disperato di outsourcing è bene evidenziato sempre da Venture Beat: tra il 2015 e il 2016 il valore dei deal tra produttori e fornitori è stato di 74,4 miliardi di dollari contro un valore medio dei 10 anni precedenti che si fermava a 17,7.
La corsa alla tecnologia, quindi, appare sempre di più alle case automobilistiche, come il fattore chiave per avere un vantaggio competitivo futuro. Un mercato che li vedrà al tempo stesso fornitori delle nuove realtà tipo Uber (che già si sta organizzando alternativamente) e Lyft, che pian piano stanno togliendo potere a quell’industria che fino ad ora è stata governata da una sorta di oligopolio difficile da aggredire. Ci sta provando Musk con Tesla puntando all’elettrico (ed era proprio ora), uno che il software l’ha sempre saputo fare (vedi PayPal), l’hardware pian piano lo sta dominando e che rischia di diventare da 0 il nuovo Re Mida del mercato automobilistico.
Morale della favola: colui che riesce, cosa che vale per tutti i business moderni, ad associare velocità di esecuzione, competenze diverse e qualità del lavoro, vince. Sempre. Come d’altronde faceva Michael Knight, il cavaliere motorizzato, che salvava i deboli dai prepotenti.