Nella serata di sabato sono stati assegnati i #MIA14, i premi della Festa della Rete di Rimini: lercio.it ha vinto come miglior sito.
Chiudiamo i master in web marketing, mandiamo a casa i guru della rete, rinchiudiamo i docenti, oscuriamo i blog che parlano di social media e licenziamo tutti i consulenti.
Sì, perché sono almeno 10 anni che continuano a sviolinarci la storia che il RE è il contenuto incontrastato, che Google privilegia i contenuti di qualità, che gli utenti sono alla ricerca del contenuto dall’alto valore aggiunto… e poi Lercio vince il premio come miglior sito, “Rocco Tieni Duro” la miglior campagna, le pagine che funzionano meglio sui social sono le più demenziali, senza senso assoluto e chi urla di più con contenuti spazzatura fa la voce grossa.
E allora? Dove sta l’inganno? Perché ci avete mentito fino ad adesso?
La verità è che nessuno ha mentito a nessuno. Tutto sta nell’interpretazione.
Spesso ci scordiamo di contestualizzare le cose e finiamo per trarre giudizi troppo affrettati.
Prendiamo l’esempio di Lercio.it: a suo modo i contenuti che propone sono decisamente di qualità.
Provo a fare una riflessione sulla follia che sto dicendo.
Quello che occorre prendere in considerazione è la comunità di riferimento.
Ogni cosa è un brand, come ci insegna Beau Toskic “brand è il lavoro che si fa nella mente del cliente, brand è una personalità che si costruisce nella mente del cliente”.
Lercio.it ha costruito una propria immagine ben definita e tipica, ha trovato un proprio tono di comunicazione, si è costruita un target con delle aspettative e si racconta da sempre con determinati tratti distintivi.
Ecco, i suoi contenuti sono decisamente di qualità per il suo target: la tipizzazione unica della comunicazione rispecchia le aspettative dei seguaci, i contenuti soddisfano la sete dei fruitori e la qualità sta proprio del fornire il giusto contenuto alla persona che lo sta cercando, nel momento in cui lo sta cercando, nei modi in cui lo richiede.
Lo sviluppo tecnologico accompagnato dall’innovazione comunicativa ha permesso a chiunque di accedere al mondo virtuale, che rappresenta la più ampia opportunità di veicolazione dei contenuti mai esistita.
Il problema però non è mai stato nei supporti tecnologici o nelle casse di risonanza a disposizione: il vero elemento differenziale lo fa la conoscenza che un brand ha del brand dentro di sé, unita alla conoscenza della percezione che le persone hanno del proprio brand.
Spesso conosciamo bene chi siamo, ma dal nostro punto di vista, senza considerare cosa siamo per gli altri. Capire cosa si aspetta la gente da noi è il primo passo per costruire contenuti di qualità.
Grazie al Cielo siamo dell’era dei big data, dell’analitica pervasiva e delle metriche sfrenate. Adesso non è più possibile chiudere gli occhi e voltarsi altrove: capire chi siamo e cosa piace al nostro pubblico è alla portata di tutti. Gli insuccessi che si vedono in rete non possono esser più giustificati da nulla, se non dall’incompetenza comunicativa o dal poco coraggio: è infatti più semplice per tutti raccontare “il brand che vorrei essere”, invece di confrontarsi con la realtà e, magari, provare a prender spunto da essa per costruire il contenuto di qualità che da tempo sentiamo osannare come risolutore delle problematiche del web postmoderno.
I contenuti sono ancora i RE della rete: solo che finalmente adesso siamo in grado di riempire di significato vero e contestuale la scatola vuota che rappresentava la parola qualità, che prima veniva considerata alla stregua dell’idea platonica, assoluta e non referenziata.
Sinceramente sono anni che non cambiano i paradigmi della comunicazione: adesso però l’asticella si è spostata più in alto, le difficoltà aumentano. In attesa di una rivoluzione, o ci adattiamo o ci facciamo schiacciare da una rete sempre più piena, popolosa, agguerrita, competitiva e senza pietà.