Non c’è corso di marketing o comunicazione digitale che non parli di story-telling, story-doing, story-everything, nulla in contrario. Il punto però è che sembra che a volte le storie, come gli zombie, si impossessino del prodotto creando una narrazione “non sostenuta”, e per questo non duratura.
Quante volte nelle nostre tavole è comparso il sale rosa dell’Himalaya? Bene, non c’è alcun motivo per pensare che lo stesso (che arriva tra l’altro da una montagna ben lontana dall’Himalaya) faccia bene, secondo The Atlantic. Questo è per me un esempio di “storia introflessa”, che si racconta cioè da sola, distaccandosi dalla verità.
Quello della verità è un concetto che mi spacca la testa da quando ho incontrato Simone Sarasso, autore di Alpha, un libro molto bello. Simone mi ha detto che ogni storia deve avere un “certain amount of truth”, cioè un livello minimo di verità.
Proviamo a cimentarci in un grafico?
Il punto a mio parere è il seguente: le storie introflesse (che non sono finte, ma non sono neanche vere) non durano. Il nostro mondo è fatto di prodotti fantastici che ben si prestano ad essere raccontati ed è nostro compito quello di garantire la verità e non la verosimiglianza delle storie che raccontiamo.
È davvero palese che il nostro ruolo ci mette in mano delle armi manipolatorie, il basso livello di alfabetizzazione digitale medio e l’alto livello di competenza dei marketer che sguazzano ormai tra PNL e Bias, ha reso il nostro mestiere estremamente pericoloso se messo in mano a chi vuole solo sfruttarlo per fottere le persone.
Queste poche righe sono in realtà solo un invito a ricordarci che il nostro mestiere non è quello di creare storie che non stanno in piedi o raccontare storie in cui non crediamo. Il nostro mestiere è quello di amplificare contenuti la cui bellezza merita di essere illuminata ed amplificata e non di essere costruita perché assente, falsa e artefatta.