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Employer Branding nel B2B: quali prerogative?

In questo articolo cerchiamo di capire quali siano le prerogative a cui le aziende B2B devono lavorare prima di considerare una strategia di Employer Branding, con qualche consiglio operativo finale su LinkedIn.

Già qualche anno fa esploravamo qui il significato dell’espressione “fare Employer Branding sui social network”, non tanto come strategia di promozione, quanto come mezzo di recruiting altamente specializzato a disposizione degli ambiti HR già digitalizzati.  

Ancora oggi, dopo 5 anni, secondo Digital4, l’Employer Branding si conferma una strategia di recruiting i cui benefici possono raggiungere l’ingaggio dei migliori profili in circolazione e la riduzione del tasso di turn-over fino al 28%. Una strategia di up-selling, quindi, e di qualità.

Da buoni “fuori dal funnel” in questo articolo invece cerchiamo di capire di cosa devono disporre le aziende B2B prima di tuffarsi nell’operazione Employer Branding, riportando infine qualche consiglio operativo sulla piattaforma B2B per antonomasia: LinkedIn.

Per capire quali siano le giuste prerogative per una strategia di Employer Branding B2B partiamo dalla sua definizione:

“L’espressione Employer Branding non è altro che la variante del più tradizionale Customer Branding una strategia che si riferisce all’insieme di valori che l’azienda riesce ad associare al proprio marchio nella percezione del consumatore attraverso gli strumenti di comunicazione”.

Traslato nel B2B il target è in primo luogo l’employee (e, in secondo luogo, il “cliente B2B”) e ciò che si cerca di attivare è una dinamica di WOM basata sui valori aziendali rivolta agli stakeholders e ai fornitori già fidelizzati, fino a far arrivare la “voce” ai potenziali partner.

Nell’Employer Branding B2B entrano in gioco aspetti quali l’identità dell’organizzazione e la capacità di investire su relazioni stabili e collaborative: l’azienda risulta un luogo di lavoro interessante e stimolante, in cui riconoscersi, dove stabilità e trasparenza sono all’ordine del giorno.

Un’identità, quella dell’azienda, che definisce il potere del brand come miccia di instaurazione di relazioni industriali, che costringe a pensare alle motivazioni che spingono un’impresa a selezionare un potenziale fornitore e ad entrare in contatto con esso.

Nello scouting del fornitore il brand assume, infatti, un valore aggiunto sviluppando le stesse caratteristiche del Consumer Branding del mercato B2C: fungendo prima da “vetrina” e poi, successivamente, vengono presi in considerazione gli altri elementi come la qualità relazionale e le performance dell’impresa fornitrice.

È possibile quindi affermare che il brand agisce positivamente sulla dinamica del rapporto fornitore e impresa acquirente, ma a definire ulteriormente la loro relazione è l’attenzione verso le dipendenze, i legami, le attività e le risorse coinvolte.

Tale strategia prende il nome di “ingredient branding, ossia: “l’utilizzo del valore di marca da parte del produttore di una componente che verrà assemblata in un prodotto più complesso e rivolto al consumatore finale”.

In questo caso il consumatore in questione sarà il primo ricettore delle attività di branding e sarà egli stesso a rafforzare il potere contrattuale del fornitore di tale “ingredient”.

Ingredient branding = rendere visibile l’invisibile

Torniamo allora alla domanda iniziale: quand’è che ha senso integrare questa strategia nella comunicazione B2B?

  1. quando l’azienda riesce a far emergere le sue caratteristiche distintive rispetto ai competitor fornendo una chiara definizione di ciò che l’azienda è realmente, cosa fa, quali sono i suoi valori e qual è la sua Customer Value Proposition.
  2. quando è possibile direzionare la strategia di comunicazione sui collaboratori, “i primi dipendenti”, un network preziosissimo e potentissimo, in grado di fare “gioco di squadra” se opportunamente motivato e riconosciuto.

Senza queste due premesse tanto vale cominciare.

Tutto ciò a patto che i dipendenti condividano i valori dell’azienda e si sentano valorizzati: ogni dipendente può infatti diventare un brand ambassador su Facebook e LinkedIn (anche su Instagram) e farsi portavoce dei valori e dell’operato della propria organizzazione.

Su questa base si è arrivati a parlare di Employer Value Proposition, ovvero, la valorizzazione dell’identità dell’azienda agli occhi del potenziale dipendente per le strategie di attraction e in riferimento alle risorse interne per le strategie di retention.

Ovviamente tale obiettivo è perseguibile solo sviluppando adeguate strategie promozione, in modo da indurre l’individuo ad avvertire quasi un senso di appartenenza all’azienda stessa, di riconoscimento tale che lo stesso dipendente si fa automaticamente e spontaneamente ambasciatore della sua organizzazione.

LinkedIn resta la piattaforma dove l’integrazione tra Employer Branding e Brand Identity viene maggiormente incentivata: attraverso il company update per esempio, che permette di arricchire l’esperienza professionale, la rete relazionale del dipendente e rafforza il suo “Personal Branding”.

I post condivisi dai dipendenti su LinkedIn contribuiscono alla diffusione dei contenuti del brand, ampliandone la potenzialità di essere visti e notati, grazie ai loro collegamenti diretti. Condivisioni queste, che in media generano un engagement fino a 8 volte superiore rispetto allo stesso contenuto pubblicato unicamente sulla pagina aziendale.

Anche in questo caso le pagine aziendali di LinkedIn fungono da luogo in cui far convergere contenuti e interazioni: da quest’anno le aziende potranno infatti ricondividere i post pubblici dei propri dipendenti.

 
 
AUTORE

Giulia Brigato

PR di natura e social da My Space, per passione mi occupo di interior design e di eventi. Dipendente dalle cuffiette, viaggio in sella ad una bici da corsa vintage rosa.
 
 

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