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Perché Taylor Swift non avrebbe dovuto lasciare spotify

Taylor Swift, famosissima e amatissima cantante americana ha fatto uscire “1989”, il suo ultimo album il 27 ottobre scorso e con lui la notizia che non sarebbe stato reso disponibile su Spotify. Non solo, ma addirittura l’intero catalogo già presente sarebbe stato rimosso da lì a poco.

Come Taylor stessa ha dichiarato in un’intervista a Yahoo Music, Spotify è stato un esperimento. Sa che l’industria musicale è in continua evoluzione e quindi ha cercato di avere la mente aperta anche a questa possibilità, ma ormai era arrivata al punto di non sentirsi più in pace con se stessa:

Mi sentivo come se stessi dicendo ai miei fan: ‘Se un giorno scriverete musica, oppure dipingerete un bel quadro, qualcuno potrebbe entrare in un museo, staccarlo, strapparne un angolo e tenerselo senza averlo pagato!’ Non mi piaceva la percezione che stavo portando avanti. E così ho deciso di cambiare il modo di fare le cose.

Il discorso di Taylor però ha due punti critici: il primo è che nell’intervista dimostra di voler prendere le distanze dai sistemi di sharing musicale ma, di fatto, ha eliminato il suo catalogo solo da Spotify , lasciandolo disponibile su portali che pagano delle royalties agli artisti decisamente più basse e il secondo è che, di conseguenza, la metafora del quadro non regge.

L’idea non è quella di criticare la decisione personale di Taylor, ma di spiegare ai suoi fan che lo sharing musicale non è rubare pezzi di quadro dai musei.
Come sottolinea Daniel Ek, CEO di Spotify: “Sopify non è il nemico, lo è la pirateria! Sapete perché? Due numeri: zero e due miliardi. La pirateria non paga neanche un penny agli artisti. Spotify ha già pagato più di 2 miliardi di dollari alle etichette discografiche e agli autori perché li dessero ai vari musicisti.”

Dal 2008 Spotify ha una community di 50 milioni di utenti 10 dei quali sono passati alla versione Premium, eliminando l’adv tra un brano e l’altro. In ogni caso, che i ricavi sulla musica derivino dalla pubblicità o dagli abbonamenti, Spotify paga il 70% delle sue entrate ai detentori dei diritti.
Inoltre è un sistema estremamente meritocratico perché non esiste un prezzo fisso di riproduzione ma varia in base alle riproduzioni totali. In sintesi, più il tuo brano viene riprodotto, più guadagni. La lamentela che gira prevalentemente è che questo sistema premia i big della musica e penalizza i piccoli. Ma questo problema non sussiste se sei Taylor Swift e il tuo catalogo è valutato intorno ai 6 miliardi di dollari in riproduzioni.

Detto ciò, posso capire che Taylor ci tenga che i suoi fan acquistino i suoi album legalmente, ma forse non ha pensato che i suoi fedelissimi lo avrebbero fatto comunque. La fetta di audience che poteva raggiungere rimanendo in Spotify è composta da gente che molto probabilmente non comprerà mai un suo album, che non andrà mai ad un suo concerto e non si porrà il problema di scaricare legalmente quella canzone che ha sentito per radio tornando dal lavoro “che faceva: ‘Shake Shake qualcosa’… mmm.. vediamo se Spotify mi aiuta.. No non c’è! Vabbè l’andrò a cercare su YouTube!”

Fonte immagine: Saloon.com

 
 
AUTORE

Ilaria Sofia Ragona

Universitaria appassionata di marketing, social media e pubblicità. Ho una doppia vita: di giorno studio Strategie di Comunicazione a Padova e di notte faccio la community manager. Sono curiosa e non riesco a fare a meno di cimentarmi in nuove imprese e avventure. Adoro la musica, i cardigan colorati e le conferenze di settore.
 
 

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